Zabaione #7
Di sigarette, tabaccai e romanzi uto/distopici (che però se era il numero 8, era meglio, che portava fortuna e era in tema).
È da un giorno imprecisato - giacché non l’ho segnato su alcuna agenda o calendario - dei primissimi di febbraio che non sto più fumando.
È successo che Figlia numero 2, vai a capire come e perché, ha tastato per l’ennesima volta il piccolo parallelepipedo del pacchetto di sigarette nella tasca della mia giacca e che, per l’ennesima volta, mi ha fissato negli occhi con fare accusatorio chiedendo, in maniera consapevolmente retorica: «Che hai lì in tasca?».
Dopodiché la piccola delatrice si è prontamente recata dalla madre e dalla sorella annunciando che il papà stava ancora fumando.
Allora io, consapevole anche che nel pacchetto era rimasta una sigaretta sola, ho optato per il beau geste, dicendo a Figlia numero 2 «Guarda, Figlia numero 2, prendi pure questo pacchetto e buttalo, è vecchio, io oramai non fumo più».
Non so quanto credessi nell’efficacia simbolica del gesto (presso di me, non presso Figlia numero 2), ma mi sembrava una cosa giusta da fare.
In effetti non vorrei che le mie figlie iniziassero a fumare, e io, dal canto mio, vorrei godermele il più a lungo possibile (scritte queste righe ho letto dell’ictus di Sorkin e del suo appello contro il fumo, guarda te le coincidenze delle vita).
Comunque.
Fatto sta che da allora non fumo. Non ho fumato - ed è stata una prova importante - nemmeno mentre ero al Festival di Berlino, nonostante i tempi vuoti da riempire davanti alle sale e la pessima qualità generale del programma.
Quindi, ricapitolando, da inizio febbraio non fumo, la cosa tutto sommato mi manca moderatamente, ma penso anche in maniera ricorrente alla celebre battuta di Woody Allen: «Ho smesso di fumare. Vivrò una settimana di più e in quella settimana pioverà a dirotto».
Questa però non vuole essere la cronaca della mia ennesima lunga pausa dal vizio, che mi auguro possa durare molto a lungo.
Il fatto è che, avendo smesso di fumare, non vado più in quella che a lungo è stata la mia tabaccheria di riferimento, e quindi non vedo più spesso né il suo gestore, Alessandro, né quella ragazza che ogni tanto lavora lì da lui e che ha i capelli più belli del mondo, capelli lunghi e spessi, rossi e ricci, che le incorniciano il volto pallido e preraffaellita: una che pare un’incrocio tra la Merida della Pixar e la Venere del Botticelli.
Comunque.
Alessandro, dicevamo.
Alessandro di cognome si chiama Zhu. È nato in Cina, ma vive a Roma da quando è un bambino piccolo, e quando entri nel suo negozio è sempre impegnato in qualcosa, ma anche sempre gentile e disponibile.
Io non lo sapevo, me l’ha detto la Mamma di Figlia 1 e Figlia 2, ma Alessandro è anche un grande appassionato di cinema. Solo di recente ho scoperto che da ragazzo era uno spettatore fedele di Fuori Orario, e che anche all’Università ha studiato cinema.
Ma non è di cinema che qui voglio parlare, nemmeno.
Il fatto è che Alessandro Zhu ha scritto un romanzo.
(Qui dovrei aprire una piccola parentesi sul fatto che io, con le mie velleità letterarie, e i corsi con Paolo Nori, e le letture, e tutto il resto, cincischio sempre, perdo tempo, mi impigrisco, sospendo, non finisco, rimando. Alessandro, invece, che lavora tutto il giorno tutti i giorni in tabaccheria, ha scritto un romanzo. 316 pagine. Il carattere nemmeno troppo grosso. Normale, direi. Chiudiamo la parentesi che è meglio).
Alessando Zhu ha scritto un romanzo, dicevamo.
Il romanzo si intitola “2088” e lo ha pubblicato Orientalia, una casa editrice indipendente che, come lascia intuire il nome e come è specificato sul suo sito ufficiale, si interessa, «a tutto ciò che riguarda il Medio e l'Estremo Oriente, con un occhio particolare alla Cina».
È stato Andrea Marcelloni, che con Palmira Pregnolato è l’editore di Orientalia, a parlarmi di “2088”, incuriosendomi, e poi a farmi leggere questo romanzo di Alessandro, che è in effetti la cosa di cui vi voglio parlare.
Come lascia intuire il titolo, “2088” è un romanzo che parla di un futuro prossimo. Un futuro prossimo nato come un’utopia e diventato, invariabilmente, qualcosa di assai simile a una distopia: un mondo globalizzato e interamente virtualizzato, dove tutto (o quasi) si svolge online, dove a tutti è garantito ciò che serve per sopravvivere degnamente ma dove la competizione per arrivare ad accumulare Crediti Social, e quindi status, celebrità e, in un certo senso, anche ricchezza è costante e pervasiva.
Un mondo nel quale il protagonista, un ragazzo di nome Aki, che in fondo non è poi così interessato a diventare chissà chi, vive attaccato al suo visore VR, quando non deve uscire per partecipare alle Ore d’Aria stabilite dal Ministero della Salute, tra la visione di film, sedute con le sue dive ASMR preferite, e la visione immancabile del Quiz Nazionale, appuntamento imperdibile, condotto da una specie di futuristico Amadeus che garantisce a chi partecipa, e vince, la possibilità di realizzare il suo più grande desiderio.
Alla storia di Aki, che verrà in qualche modo contattato per chissà quali ragioni da gente che è riuscita a uscire dalla Grande Rete, per vivere assieme in maniera non virtuale, Alessandro Zhu alterna quella di Edward Miskin, geniale imprenditore del tech, colui che, decenni prima, aveva desiderato un mondo privo di crudeltà, crimini e ingiustizie, e un’Internet privo di cattiverie, troll e fake news, e aveva quindi sognato e realizzato la Grande Rete e quella che sarebbe diventata la Grande Virtualizzazione Mondiale.
Ora.
Quando ho iniziato a leggere “2088” ho capito abbastanza in fretta che mi sembrava una storia che, partendo da incontrovertibili dati di realtà coi quali facciamo i conti tutti i giorni, mescolava - in maniera non so quanto conscia ma sicuramente assai personale - il gusto pop del “Ready Player One” di Ernest Cline (quello da cui Spielberg ha tratto l’omonimo film), certi temi e certe situazioni di “Il cerchio” di Dave Eggers (anche questo diventato un film, con Tom Hanks e Emma Watson), e le indagini e le cronache sull’uso delle tecnologie digitali nella Cina contemporanea (che è pur sempre il paese d’origine di Alessandro, e che a un certo punto viene citato esplicitamente) fatte da Simone Pieranni in “Red Mirror”.
E andando avanti, e arrivando fino alla fine, gustandomi una per una tutte le tantissimi citazioni cinematografiche inserite da Alessandro Zhu nei nomi, nei numeri, nelle situazioni e nei risvolti di “2088”, mi son ritrovato a pensare che, fossimo stati in un altro paese - che so, negli USA, o in qualche paese dove il cinema, parlandone da vivo, fosse davvero industria - questo romanzo qui sarebbe già stato opzionato per diventare un film, o magari, ancora meglio una serie tv.
Sono undici, i capitoli in cui è diviso “2088”, che potrebbero o non potrebbero diventare altrettanti episodi di una serie, e che si intitolano tutti come una canzone, con tanto di QR Code piazzato in cima alla pagina per permettere al lettore, se ne ha voglia, di vedere il video di quella canzone lì sul proprio cellulare, e ascoltare la canzone mentre si legge.
Ha pensato a tutto, Alessandro Zhu, tra la vendita di un pacchetto di Camel, una giocata al SuperEnalotto, il pagamento di un bollettino, una fotocopia, una ricarica telefonica.
E ha scritto un piacevolissimo romanzo di genere, che ha anche e forse sopratutto il merito di essere modesto, di non arrogarsi alcun diritto, di non ergersi a pensoso e dolente commentatore dei costumi di oggi e di domani: perché quello che Alessandro Zhu racconta, in “2088”, oltre a essere estremamente plausibile, non è mai connotato da giudizi morali e moralisti. E se la Grande Virtualizzazione Mondiale sia stata la realizzazione di un’utopia, o la concretizzazione di uno scenario distopico, lascia che siano i suoi personaggi, e ancora di più i suoi lettori, a stabilirlo.
O, ancora meglio, ipotizzarlo.
Ah. Una cosa.
Amici sceneggiatori: se vi ho fatto venire un’idea, per gentilezza, tiratemi dentro al gruppo di scrittura.
Io, intanto, mentre aspetto, vado in balcone a fumare una…
Ah, no.
Allora salutiamoci con Donavon Frankenreiter, che è uno dei miei cantanti preferiti e mi mette sempre nello stato d’animo giusto.